martedì 17 aprile 2012

Amore platonico



Il Simposio è sicuramente il più bello e il più conosciuto dei dialoghi di Platone, perché parla dell’amore.
Amore è per Platone desiderio inesausto di bellezza: dapprima si realizza nel desiderio di possedere i corpi belli (e come ti si può dar torto, Platone spallone?), poi subentra l’amore nella sua dimensione spirituale, ovvero amore delle anime belle, come anche amore per un pensiero o un ragionamento bello, e infine per i più fortunati, per i più speciali (insomma non è per tutti) è dato conoscere l’amore per la bellezza in sé, quella bellezza che non nasce e non muore, che non si accresce né diminuisce, e che rende belle tutte le altre cose: i corpi, le anime, i pensieri e i ragionamenti. I corpi, le anime, i pensieri e i ragionamenti, in altre parole, sono belli – possono essere belli – perché partecipano della bellezza in sé.
Da questa teoria deriva la definizione di amore platonico: per Platone l’amore verso i corpi non è che un passaggio, ciò che conta è altro, è il raggiungimento di questa bellezza ideale ed eterna.
L’amore platonico è un argomento che fa schiantare tutti dalle risate: che amore è, se è solo spirituale? Ok, spirituale un po’ va bene, ma non dimentichiamoci  la passione! Che noia, Platone! Dove sta quella che banalmente chiamiamo attrazione fisica, che è ciò che muove un corpo verso l’altro, che è ciò che permette l’unione intima tra due corpi? Dove sta quell’ inquietudine, quel desiderio di possesso, quel bisogno fisico dell’altro, che non esaurisce certo l’amore ma che tutti noi nell’amore conosciamo?
Bene, Platone non era un tipo noioso e questo amore lo conosceva benissimo. Tant’è che il Simposio non finisce affatto con il pacificato discorso sulla bellezza. Improvvisamente, proprio mentre tutti stanno in religioso silenzio ad ascoltare le parole piene di saggezza di Socrate, irrompe come un pazzo nella stanza Alcibiade. Alcibiade, personaggio politico molto noto nell’Atene del V secolo (ma ora non volevo uscirmene con una lezioncina), è completamente ubriaco e folle, davvero folle, di amore verso Socrate. Socrate, ci racconta Alcibiade, nella lunga e tormentata dichiarazione che chiude il Simposio, non è bello nel senso classico (anzi, pare proprio che Socrate fosse bruttarello) , eppure racchiude una sua bellezza unica ed eccezionale, che stordisce, inibisce, intimorisce.  «Quando sono con te» sembra dire Alcibiade «non riesco a parlare, non riesco a dire cose intelligenti, perdo tutte le mie sicurezze». L’amore ci rende vulnerabili. Ma per fortuna è così. Essere vulnerabili è una cosa meravigliosa.
Alcibiade ci dice molto chiaramente: «Oh, Socrate, che stronzate vai dicendo con quella storiella sulla bellezza… come può quella storiella spiegare tutte le storie d’amore? Ognuna ha la sua specificità, il mio amore non è amore per un corpo bello o per un’anima bella, e men che meno per la bellezza in sé, il mio amore è per quel determinato corpo e per quella determinata anima».
Non è certo casuale che il Simposio finisca con il discorso di Alcibiade. E così, in fondo in fondo, io credo che, come sempre, Platone sia più contraddittorio e tormentato di quanto volesse far credere.
Platone lo sapeva bene che amore è aspirazione alla completezza, desiderio spirituale di unione con un’altra anima. Ha ragione, d’altra parte. Amore è anche questo.
Ma poi ci ha pensato benino e, non convinto che questo potesse esaurire tutto, ha fatto arrivare Alcibiade, pazzo, ubriaco, ma inequivocabilmente  innamorato perso (impossibile non riconoscersi in Alcibiade, almeno in qualche momento della vita!!!), e il suo amore, tormentato, sofferto, inquieto, si esplica in modo chiarissimo anche nel desiderio di possedere fisicamente Socrate.
Platone sembra tutto sommato dirci: «Aspirate alla saggezza, alla bellezza, all'unione spirituale, ma sappiate che siete anche corpo, sappiate che siete anche fragili e imperfetti, e sappiate che è anche e soprattutto questo a rendervi uomini».

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